Il racconto di una meravigliosa esperienza nel Regno Unito: Bristol

Tra i periodi più importanti della mia vita, sicuramente ci sono i viaggi e i periodi in cui ho vissuto nel Regno Unito. Qui ho conosciuto gente, mi sono messo in discussione, ho passato serate con amici di tutte le parti del mondo semplicemente a bere birra e ridere… Quando ho saputo che Roberta si sarebbe trasferita per un po’ a Bristol le ho chiesto di buttar giù pensieri sparsi sulla sua esperienza e sono contento di condividere il suo vissuto qui sul mio blog.

Bristol

Sono in pullman e non vedo neanche quello che scrivo perché è tutto buio. A dirla tutta, non so neanche dove si ferma, di preciso, quest’autobus. Paramore: sono sorpresa. Agli sconosciuti è più facile dire i fatti tuoi perché non rischi di sentirti giudicato per tutto il tempo che resta. Ho messo gli Oasis, ho molto poco sul cellulare. Nel corridoio del pullman ci sono delle confortanti luci blu e sullo schermo di fronte puoi vedere la strada, il percorso. Dormono tutti, a parte me e l’autista (mi auguro). Ho fatto già due danni: tirato per sbaglio la maniglia d’emergenza e fatto scattare l’allarme e tolto per sbaglio le cuffie in questo momento. Però, chi s’è svegliato, l’ha fatto su Wonderwall, gli è andata bene. Vorrei riuscire a dormire un po’, questi scenari lynchiani quasi costringono a pensare e non ho niente di reale a cui pensare, adesso. Se non che non voglio perdere la fermata. Rifletto sul verbo “to miss”, sul fatto che puoi dire di perdere qualcosa quando ti scompare dalla testa, che quella cosa non può mancarti veramente fino a quando c’è.

(5 marzo, arrivo a Bristol)

Bristol
Sto scrivendo su una pagina di Word e le parole sono tutte sottolineate di rosso, la correzione automatica trasforma la
i in I e capisco che appartengo a più luoghi, a più momenti.

Adesso, la parola distanza mi sembra estendersi per più di duemila chilometri: cerco di dividerla in sillabe mentre ascolto Ágætis Byrjun, Un buon inizio.

Di – stan – za. Ci metto almeno due ore di volo.

Bristol

E così, senza neanche capire come, mi ritrovo a camminare attraverso Castle Park per arrivare alla fermata e prendere il 75, perché mi porti dall’altra parte di Bristol. E in quel tragitto la amo tutta: le mongolfiere sull’Avon, la signora con i capelli fucsia, l’odore del cider, l’esterno dell’Old Duke brulicante di gente alle tre di pomeriggio, il ragazzo che attraversa la strada travestito da birra, l’O2 Academy, chi ha cantato con me PDA al concerto degli Interpol; quello che vedi dal Suspension Bridge, la donna che mi ha sorriso attraverso la vetrina di un bar a Clifton, i daffodils di Big Fish; amo il The Fleece e la sensazione di dignitoso abbandono prima di entrarci, la petizione per salvarlo, amo the Glass Boat e la sua carne schifosa, l’Harbourside e la bandierina numero 7, principio e fine del mio viaggio; amo Morena, Emad, Maria, Carlos, Florian, Erika, Sezgyn, Marzia, Vanessa, lo spensierato senso di avventura del nostro viaggio in Cornovaglia, l’autostop per tornare alle auto, la peculiarità di S. Ives, la tempesta a Tintagel Castle, i gabbiani (amo anche quello che mi ha rubato la pasta planandoci sopra come in un film); amo aver ascoltato i Nirvana e i Foo Fighters mentre ci si abituava alla guida a destra, amo il fatto di esserci fermati nel mezzo del nulla, per mangiare panini stesi supini vicino al ruscello, scoprire che cosa si vede oltre quella collina. Amo il freddo di quella notte in cui abbiamo dormito per terra, ridere e non addormentarsi; amo essere andata via lasciando OK Computer e un paio di scarpe rotte, gli sbalzi d’umore di Dan, i pranzi di Ben, la parete con PacMan e quella con SuperMario, Strokes Croft, il breakdancing Jesus fuori il Canteen, i graffiti di Banksi, i graffiti di altri, Start the bus, l’ingenuo “How many gates are there in your mind before entering?” di Moataz, saltare sui Killers, dire tutto, non dire niente, arrivare alla Coach Station trascinando una valigia incredibilmente leggera, le sei ore di pullman per arrivare a Liverpool e le cinque al the Cavern seduti su una cassa cantando i Beatles e gli Oasis. Amo i film, interi e a metà, la cioccolata calda, la sensazione di tensione libera, di andare e tornare, perché, come mi ha detto qualcuno “You always meet twice”. Amo e mi manca: quella differenza, che adesso è chiara, tra house e home, sentire di essere in quel gioco per bambini dove il cavallo entra perfettamente nel suo incavo – e sai che non puoi metterci la mucca – amo essere quel cavallo, entrare in quell’incavo, sapere che possiamo di nuovo perderci alle quattro del mattino senza avere paura. Perché a Talavera Close si torna sempre. Perché, in un modo o nell’altro, si torna sempre a casa.

Di – stan – za. Ci metto almeno due ore di volo.

Banalmente. Ma dal profondo,

R.

Bristol